Parigi, primavera 2012. Alla maison Dior s’insedia il nuovo direttore artistico Raf Simons, con un’esperienza (anche presso Jil Sander) per il pret à porter maschile. Il gruppo di 30 avenue Montaigne gli chiede di onorare la tradizione del marchio, dettata dal leggendario couturier (1905-1957) in soli 10 anni di attività, ma anche di innovarla. Con l’aiuto del braccio destro Pieter Muller, lo stilista – che non ha dimestichezza col francese e non disegna bozzetti – ha otto settimane per realizzare la nuova collezione haute couture. Dovrà comunicare con precisione le proprie idee allo staff, ottenerne la totale collaborazione, affrontare la stampa e sorprendere il pubblico con una sfilata all’altezza.
Montatore di commercial nel settore fashion, Frédéric Tcheng ha co-prodotto e partecipato a riprese e montaggio di Valentino: The Last Emperor di Matt Tyrnauer (2008) e ha co-diretto (con Lisa Immordino Vreeland e Bent-Jorgen Perlmutt) Diana Vreeland – L’imperatrice della moda (2011). In Dior and I isola un segmento preciso – la creazione di una collezione donna -, decidendo di non invadere la sfera intima di Dior e Simons e di non citare gli apporti dei predecessori di quest’ultimo (soprattutto John Galliano, allontanato con imbarazzo dalla maison). Tcheng accosta di continuo Dior e Simons, accomunati da riservatezza e antidivismo, riportando estratti in voce over dell’autobiografia del francese (Christian Dior & I) che mettono in soggezione il belga per le analogie. Il confronto ha anche i toni del giallo, perché si mette esplicitamente Simons nei panni di Lady De Winter di Rebecca, la prima moglie di Alfred Hitchcock: lo spirito incombente di Dior aleggia ovunque, dal ritratto alle foto ai lussuosi film d’archivio, uno dei quali è proiettato sui capi in una scena notturna resa ancora più inquieta dallo score per violoncello di Ha-yang Kim.
Il chiaro intento celebrativo nei confronti della casa che ha vestito da Wallis Simpson a Jennifer Lawrence è bilanciato dall’attenzione per lo staff: grazie a un accesso senza precedenti scopriamo la divisione tra atelier tailleur e atelier flou (tessuti pesanti e leggeri) e conosciamo le prime sarte Florence e Monique. La loro umanità orgogliosa ridimensiona la grandeur della dirigenza di un gigante del lusso e lo stress della pressione congiunta su di loro dei vertici e di Simons (irritato da un sorprendente intoppo che rivela un piccolo segreto della maison). Le “tele” dei sarti sono la controparte fiera e materica del processo d’ispirazione che prende corpo tra i piani alti e le gallerie d’arte moderna; ma i due livelli sono indispensabili l’uno all’altro.
Procedendo verso il climax – la sfilata, che ricalca la produzione di un film (entrambi processi per definizione collettivi) ma anche l’estemporaneità della performance teatrale – Dior and I coglie l’eccitazione del backstage e di uno spettacolo cui si lavora fino all’ultimo secondo utile. Seguendo un mondo che per semplificazione si definisce effimero, è profondo nel rintracciare e condividere con l’osservatore (l'”I” del titolo) la passione, la fatica e l’emozione connesse ad ogni creazione.