Antonio Borrelli

Vicepresidente nazionale UCCA

Notturno

Dopo tanti mesi sono tornato finalmente al Cinema, in una sala purtroppo quasi vuota, per vedere Notturno di Gianfranco Rosi.
Il suo documentario (se si può ancora definire tale) è un viaggio unico in un Medioriente in cui i confini sfumano, le genti si mescolano e i luoghi si confondono.

Un percorso che, evidentemente, parte dalle tenebre e da un’oscurità primigenia, politica e sociale, che sembra avvolgere quelle terre, ma che cerca poi, nella vita di esistenze frammentate e marginali, una strada di luce e forse di speranza.

È innegabile l’abilità di Rosi nel costruire una composizione visiva di livelli eccelsi, il chè va sottolineato in considerazione anche del suo modo di lavorare in solitaria. Le cornici visive, però, risulterebbero stantie se dentro non ci fossero potenti sprazzi di un’umanità varia che, nella loro semplicità, riempiono di contenuto e invitano a lasciarsi andare per entrare in profondità.

Forse il merito più grande dell’autore Italo-americano sta proprio qua. Grazie al suo certosino metodo d’indagine e di ricerca, Rosi ci porta in ogni scena, ci accompagna in un cammino attraverso lo schermo cercando di farci vivere ogni situazione insieme ai diversi personaggi del film.

Se non si pretendono spiegazioni e si tralascia un approccio troppo spesso pregno di pregiudizi e di opinioni sul Medioriente, quella che si può compiere è una vera discesa negli inferi di conflitti che hanno creato lì una miseria e un dolore senza eguali. Tutto ciò è perfettamente evocato in un ospedale psichiatrico da alcuni pazienti che provano uno spettacolo mettendo in scena tutto il complesso panorama di vicende politiche che ha attraversato quelle aree e quei popoli, la qual cosa non può non cogliere nelle potenze occidentali il grande manovratore oscuro di trame perfide e disumane.

Per vedere “Notturno” bisogna accettare un codice nuovo che cerca un’empatia molto più articolata di quella che ottenevano tanti lavori, visti negli ultimi anni, mostrando la più cruda delle realtà, quella della guerra. Da questo punto di vista anche il lavoro sull’impianto sonoro del film è mirabile, il suono è un suono d’ambiente, spesso tarato su silenzi che non possono non spingere ad una profonda introspezione chi osserva lo scorrere della narrazione e che , di tanto in tanto, sono interrotti in lontananza dall’eco di raffiche di mitra e di esplosioni, un radicale e contrastato sottofondo con il loro carico di tensione e di apprensione.

Ho letto diverse recensioni critiche nei confronti del film, molte impostate su una polemica di natura etica rispetto al dolore mostrato sullo schermo, con diverse sequenze messe sotto accusa, a partire da quella di una madre che piange il figlio nella prigione in cui è stato torturato ed ucciso, fino ad arrivare a quelle di una scuola in cui sono alcuni bambini a raccontare, a parole e con dei disegni, le tragedie vissute e le torture inimmaginabili che hanno dovuto subire.

Credo, tuttavia, che Rosi non abbia superato alcun limite, ma che anzi, anche nei momenti più strazianti, sia stato sempre molto rispettoso delle persone e delle situazioni che raccontava, mantenendo sempre una posizione della camera molto delicata nello spazio fisico e uno sguardo che, per me, non ha mai cercato in alcun modo di strumentalizzarne la sofferenza.

L’unica scena su cui si può discutere in tutto il film è quella della stanza di una prigione in cui sono detenuti numerosi prigionieri dell’Isis, in condizioni che evidentemente non rispettano alcun principio di umanità. Lì, lo ammetto, qualche interrogativo me lo sono posto, ma si tratta di un’unica sequenza in film intero e non può valere come argomento per minarne l’impianto complessivo.

Altri ancora contestano al modo di lavorare di Rosi sulla base di una ormai obsoleta e mai veritiera differenza tra realtà e finzione, per cui il documentario dovrebbe quasi restare in un campo di esclusiva restituzione della realtà senza avventurarsi in terreni che non gli sarebbero propri. Evidentemente qui scontiamo, nel nostro paese, un deficit culturale ancora rilevante, che tende a classificare il documentario in una categoria stringente alla quale pare si voglia, a volte, negare anche la dignità di essere Cinema.

Il racconto della realtà rappresenta da sempre uno sguardo ed in quanto tale è soggettività, che può esprimersi anche mettendo in scena situazioni ed innescando contesti calati nel reale, il tutto purché, a mio avviso, ci sia sempre un rispetto dell’autenticità che significa tenere nel giusto conto quello che ogni persona può regalare ed offrire ad una narrazione che voglia essere cinematografica.

Perciò se, nel fare cinema con la realtà e nel costruire un tale schema narrativo, si aderisce a questa basilare regola di condotta, dal mio punto di vista, è lecito non solo creare o ricreare momenti che traggono linfa dalle situazioni reali delle persone coinvolte, ma tutto ciò significa anche che si sta al tempo stesso compiendo un’operazione da collocare, moralmente e eticamente, in un alveo di piena legittimità.

In definitiva, ancora una volta, Gianfranco Rosi riesce a tracciare un’avanguardia, forse è destino che questo grande narratore cinematografico debba scontrarsi, sopratutto in Italia, con posizioni estremamente critiche del suo operato, mentre all’estero ormai da tempo è universalmente riconosciuto come uno dei grandi maestri del cinema contemporaneo.

Consiglio scontato ed ovvio è di correre a vedere Notturno, non so quanto possa restare in sala un film del genere, ma vale assolutamente la pena vederlo, se decidete di farlo, spogliatevi, però, di ogni pregressa convinzione e provate semplicemente ad aprirvi ad uno straordinario flusso audiovisivo.