Paul ha dodici anni e passa le sue giornate nei boschi che circondano la clinica psichiatrica in cui lavora sua madre. I due vivono soli nelle vicinanze dopo l’abbandono del padre di Paul. Al ragazzo piace prendersi cura degli uccelli del bosco, e tra gli alberi incontra un giorno Gloria, una ragazza in cura presso la clinica il cui fascino è pari solo alla sua instabilità mentale. Paul si lascia convincere a seguirla e insieme scappano dalla clinica, in cerca di una misteriosa salvezza.
L’ultimo lungometraggio di Fabrice Du Welz è un’opera di grande intensità sensoriale, che eleva una premessa narrativa piuttosto standard attraverso un tono, uno stile visivo e una prossimità al nervo emotivo dei personaggi che si vede raramente sullo schermo.
Strenuo difensore dell’uso della pellicola, il regista belga cattura il viaggio nella natura di Paul e Gloria con realismo poetico, tra fiumi e boschi bagnati di luce come una rugiada estiva. I due ragazzi sono in fuga tanto dalle autorità quanto dal tempo stesso, in un’atmosfera che rifiuta la contemporaneità e sembra nascondersi in un passato sospeso.
Adoration non è però soltanto comunione dei sensi: quello sui protagonisti è un lavoro di caratterizzazione raffinato e singolare, in equilibrio sul ripido crinale delle due età abitate da Paul e Gloria. Uno è certo di non voler fare male a nessuno, l’altra gli assicura che presto cambierà idea. Uno è pervaso da una purezza ancora infantile, che inventa dialoghi con gli uccellini e non vuole vederli morire; l’altra non abbassa mai lo sguardo e ha una storia inquietante sempre pronta. Eppure sono entrambi precisamente a metà tra l’essere bambini e giovani adulti, uno stato mutevole, cangiante, che Du Welz fa risaltare come un riflesso del sole sul fiume, e che aggiunge un senso di disagio e verità alla loro attrazione.